Holiday in Cambodia

Per ottenere un visto turistico dalle autorità cambogiane bisogna premunirsi di una fototessera. Chi non l’avesse, potrà sostituirla con due biglietti da un dollaro. Non è necessario somigliare a George Washington. In Cambogia si paga in valuta statunitense e sin da subito sembrano chiari i termini del baratto: il fascino misterioso del mitico sorriso khmer in cambio della sgualcita austerità espressiva del primo presidente americano.

Nel corso del trasferimento in tuk-tuk dall’aeroporto al centro della capitale, Phnom Penh, ogni tentativo di instaurare un primo contatto empatico si infrange perlopiù in un’impassibile indifferenza. Ci rinuncio e mi accontento di indovinare il meccanismo del moto perpetuo che impedisce a una miriade di bici e motocicli di scontrarsi in una viabilità urbana vivace e apparentemente priva di regole. Ogni sorpasso sembra la lenta e inevitabile conseguenza di un rodato sistema gerarchico: le bici superano i pedoni, i motorini le bici, le poche automobili i motorini. Nessuno corre. Nessuno sembra aver fretta. Sorrisi, come detto, pochi.

Ai lati della strada, architetture fatiscenti sono intervallate da nuove costruzioni, forse cinesi, dall’aria vagamente prefabbricata. Negozi e botteghe montano insegne in lingua khmer sovrastate da abnormi cartelloni pubblicitari divisi equamente tra compagnie telefoniche e multinazionali del sapone. Ad ogni angolo, tralicci in legno raccolgono un inestricabile groviglio di cavi elettrici. Qua e là, uno sbiadito ricordo del passaggio coloniale francese. Scuole e ospedali, nuovi o ristrutturati, esplicitano già dall’insegna il patrocinio dell’investitore di turno: Francia, Russia, Stati Uniti, Cina. Le stesse potenze che contribuirono al disfacimento sociale di un piccolo paese asiatico oggi ne firmano la ricostruzione.

La mente corre a ritroso agli anni Settanta. La Cambogia, fino ad allora neutrale, cade vittima degli strascichi della guerra d’Indocina. Gli Stati Uniti appoggiano un colpo di Stato contro il re Sihanouk e bombardano le campagne per stanare sia i vietcong infiltrati dal vicino Vietnam sia i guerriglieri khmer che puntano a rovesciare il governo fantoccio. I bombardamenti dei B-52 stremano la popolazione e rafforzano i Khmer rossi che, finanziati dalla Cina, riescono in poco tempo a occupare l’intero paese. Phnom Penh cade dopo lunghi mesi di paziente assedio. Occidentali e filo-occidentali fuggono dal paese e i guerriglieri comunisti entrano nella capitale accolti da liberatori. Correva l’anno 1975.

Da quel momento, con le frontiere serrate, la Cambogia diverrà il teatro di un incredibile auto-genocidio. Il progetto di Pol Pot, ex studente modello della Sorbona di Parigi, e dei vertici della nuova Kampuchea Democratica mirava alla cancellazione di ogni forma di deviazione borghese e occidentale. Vengono abolite le religioni, le scuole, le professioni e la moneta. Milioni di cambogiani vengono costretti al lavoro forzato nei campi. Chiunque portasse gli occhiali, giustiziato. Il calendario resettato all’Anno Zero della Rivoluzione Socialista.

Il presente mi risucchia. Cerco ovunque i segni della tragedia e con quella provo a giustificare l’assenza dei sorrisi, come fossero impediti da una contrazione funerea dei muscoli facciali. Ed eccola, l’empatia: unilaterale, ingenua, solidale. Sono un replicante della funesta presenza occidentale e proietto questa immagine negli occhi dei cambogiani che incrociano i miei. Forse non sono il benvenuto. Come fossi uscito da una grossa torta nel bel mezzo di un funerale.

Riprendo lucidità e non mi tornano i conti. Si stima che nel quadriennio ’75-’79 il regime dei Khmer rossi abbia massacrato dai due ai tre milioni di cambogiani, e i bambini, i più facili da programmare secondo la nuova dottrina, erano diventati il motore del progetto sociale di Pol Pot. Dietro l’innocenza di ognuno di loro si celavano gli occhi e le orecchie del regime. Sono passati trent’anni e molti di quei giovani devono essere gli adulti di oggi. A chi sto rivolgendo un sorriso? A chi stringo la mano? A chi passo i miei dollari? Tolti i morti, come distinguere, tra i vivi, le vittime dai carnefici?

Ho iniziato a diffidare di chiunque dimostrasse più di quarant’anni.

Rientra nel profilo la cupa proprietaria della guesthouse in cui alloggiamo. Da mattina a sera se ne sta seduta sulla soglia dell’ingresso, davanti a un banchetto ricoperto di fogli e ricevute fiscali. Un ragazzo in camicia bianca le detta dei numeri che lei riporta, fredda e attenta, su un grosso registro. Quando non scrive, conta con cura delle cospicue mazzette di banconote. Neanche quelle le estorcono un sorriso. L’ho scrutata per tre giorni, con la solita domanda a ronzarmi nelle orecchie:

“E lei, madame, da che parte stava?”

Strana città Phnom Penh. Per nulla bella, si ha la sensazione che per svelarti i suoi pregi ti implori un attento e prolungato abbandono. In pochi giorni è più facile contarne i lati oscuri. Il lungofiume su Sisowath Quay è il centro nevralgico della vita turistica. Decine di venditori ambulanti, alcuni dei quali menomati negli arti dalle migliaia di mine antiuomo che puntellano il paese, offrono la più completa biblio-filmografia del genocidio cambogiano: dalle biografie di Pol Pot al film Killing Fields (in Italia, Urla del silenzio). Un business della memoria dai tratti inquietanti e rigorosamente in copia pirata.

I locali, in gran parte occidentalizzati, si susseguono ininterrotti per tutta la lunghezza della via, e tra i tavoli, mescolati ai gruppi di turisti, è facile individuare solitari e distinti cinquantenni che sorseggiano una birra Angkor. In pieno giorno, può capitare di osservarli flirtare con giovani, forse troppo giovani, ragazze locali. Lui le offre qualcosa da bere, che lei accetta col capo chino, incassato nelle spalle strette. Lui la tocca e le dice qualcosa. Lei si alza di scatto e corre via tra l’ilarità complice dei ragazzi del posto. Lui continua a bere la sua birra, con l’aria di chi ha perso una battaglia, ma non la guerra.

Dall’altro lato della strada, un largo e ben tenuto marciapiede si affaccia sul Tonlé Sap, il fiume che dal pescoso lago omonimo confluisce, poche centinaia di metri a est, nel più famoso Mekong. La mattina presto, quando il caldo tropicale non si è ancora impadronito della città, c’è chi passeggia e chi fa ginnastica. Altri praticano antiche discipline orientali in slow motion. Altri ancora, in gruppo, si cimentano in passi di danza al ritmo di musiche moderne.

Seduti a terra, a qualche metro di distanza, li osservano un bambino e una bambina. Scalzi e vestiti di stracci, sembrano incuriositi, ma per nulla divertiti. Al passaggio di un turista si alzano per elemosinare, poi tornano a terra a fissare gli improvvisati ballerini. Un’altra bambina, più piccola e ben vestita, sfugge al padre e, con passi incerti e festosi, raggiunge i due piccoli mendicanti. Il maschio la guarda privo di espressione, fissa per qualche secondo le scarpe della piccola e poi torna a ignorarla. Sullo sfondo, un uomo porta a spasso un grosso elefante indiano.

Alle mie spalle, al di là del basso muretto, un ripido argine di cemento si immerge sotto il corso limaccioso del fiume. C’è già chi getta la sua lenza nell’acqua e chi vi fa la sua prima pisciata. Prima del tramonto, l’elefante del mattino ripasserà in senso inverso. Il largo marciapiede brulicherà di gente del posto. Gruppi di ragazzi prenderanno a calciare delle palle di vimini intrecciato e il solito muretto sarà una comoda base per intercettare qualche tiepido passaggio di vento.

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Phnom Penh, 2010

© Simone D’Angelo